Ho conosciuto <b>Mario Cardenas</b>, e abbiamo viaggiato con lui attraverso il Guatemala. Non sapevo chi fosse.
Chiesi ad un mio caro amico se conoscesse qualcuno in Guatemala che avesse potuto aiutarci a gestire un viaggio nel paese e di risposta ho avuto il contatto di Mario. Lui, Mario, lavora presso una cooperativa, la Kato-ki, a Chimaltenango. Troppo indaffarato nell’organizzazione del viaggio non mi sono documentato su questa cooperativa o sul lavoro di questa persona.
E così finisce che poco meno di un mese dopo ci incontriamo fuori dall’aeroporto. Io, spaesato dalla folla, stanco dai lunghi voli e con in testa solo l’organizzazione della logistica di un viaggio inaspettato, lui in camicia azzurra a mezze maniche e borsello di cuoio a tracolla, sudato, preoccupato di essere in ritardo a causa del traffico.
Mi accoglie come fossi un amico di lunga data e nonostante il mio spagnolo tentennante mi fa subito mille domande e chicchieriamo per tutto il viaggio attraverso il traffico di Città del Guatemala prima, e sulla mitica Panamericana, poi, verso la vera capitale morale del Guatemala, la città di Antigua. Subito Mi racconta della cooperativa e della scuola. Si capiva che tutto nella sua vita ruota attorno a quello. Le mie perplessità però aumentavano… scuola? quale scuola?
La strada continua e da Antigua arriviamo a Chimaltenango, dove subito fuori dal paese in quella che qui chiameremo una carinissima zona residenziale alle pendici di una verde collina, troviamo casa sua. Ormai è sera.
Mi fa accomodare in quella che oggi è la lavanderia, siamo sotto una tettoria di lamiera che divide il garage, in una stanza nuda con un letto e una libreria. Scopro solo dopo qualche giorno che fino a pochi anni prima era quella la loro casa, la loro unica stanza per tutta la famiglia, tutto il loro mondo. Si attraversa un viaggetto nel verde e c’è la casa vera, appena costruita. A cena conosco Micaela, sua moglie, i loro figli Fredy, Mario e Alejandra e due nipotine.
Non ho fame, troppi pasti negli aerei e troppe ore di fuso orario, voglio solo dormire e mi imbarazza non accettare il primo piatto di frijoles in terra guatemalteca.
La mattina seguente andiamo subito in cooperativa. Kato-ki nell’idioma Q’eqchi significa “aiutiamoci”. In atrio mi presenta a tutti i suoi collaboratori. La segretaria si prodiga per farmi accomodare nella sala conferenze. Una stanza vuota, solo un tavolo e due sedie. Qui tutto ti riporta a volti e le testimonianze di abuso dei diritti umani e della resistenza pacifica degli indios. Una resistenza che ha sopportato la guerra interna, iniziata nel 1954 con un colpo di stato in cui la multinazionale Unted Fruit Company ha avuto un ruolo importante, e terminata nel 1996 con gli accordi di pace. Si è tratta di una guerra dichiarata dallo stato. Una guerra che ha prodotto 200.000 morti, 400 villaggi scomparsi, cioè villaggi letteralmente rasi al suolo dai militari che hanno ucciso uomini, donne, bambini, anche animali, 40.000 desaparecidos, 1.000.000 sfollati fuggiti sulle montagne, 500.000 rifugianti in Messico.
Secondo la Commissione per la verità le forze del governo e i paramilitari furono responsabili del 90% delle violazioni di diritti umani avvenuti durante la guerra. L’ONU ha definito tutto questo genocidio. Gli accordi di pace prevedevano la consegna delle armi da parte dell’opposizione, in cambio il governo si impegnava a rispettare i diritti delle popolazioni indigene, a ridimensionare il potere dell’esercito, si impegnava nella lotta contro l’estrema povertà, la fame, l’analfabetismo, e dichiarava l’impegno ad adottare finalmente un riforma agraria per una più equa distribuzione della terra.
L’opposizione ha deposto le armi, ma dopo più di dieci anni il governo guatemalteco non ha mantenuto alcuna promessa.
L’oligarchia guatemalteca è uscita rafforzata dalla guerra, mentre gli indios non hanno visto cambiare la loro situazione di emarginazione e ingiustizia sociale.
Dovevo, mi sentivo in dovere di mostrare quella realtà alle persone che sarebbero venute in viaggio con me. E chi più di Mario Cardenas poteva esserne il portavoce? Lontano dalla città, lontano dalla sua cooperativa, da sua moglie e dalla sua famiglia, Mario parla. Ci parla, e ci racconta la sua vita.
“Siamo nati quarant’anni fa. Ne abbiamo viste tante. La prima attività della cooperativa fu l’acquisto di due grandi appezzamenti di terra e la loro successiva redistribuzione ai soci della cooperativa. Qua la condizione dei campesinos era quella tipica dell’America Latina. Grandi latifondi rivolti alla monocultura, condizioni lavorative da schiavitù e nessuna prospettiva di cambiamento, né per se né per la propria famiglia".
Parla con semplicità Mario, sempre con la sua camicia azzurra. Ci tiene a trasmettere la sua esperienza e a far conoscere la sua realtà.
"Questa era la situazione, e noi abbiamo ridistribuito la terra. La questione fondiaria è la chiave di tutto. Stavamo iniziando ad allargarci, a crescere. Pensavamo che il conflitto potesse diminuire di intensità e abbiamo fatto questi investimenti. Ci sbagliavamo. Proprio in quel periodo arrivò la fase più violenta della guerra, con l’eliminazione sistematica dei leader delle comunità e di ogni realtà che cercava di aiutare la gente. In passato la politica del governo era di lasciare le popolazioni Maya sull’altipiano, come fossero in quarantena. La situazione cambiò quando il governo militare identifico le comunità indigene come sostegno alla guerriglia e procedettero con operazioni militari volte ad uccidere tutti, specialmente gli uomini. Degli 8500 soci che eravamo ci siamo ritrovati nel 1984 con 3300 soci, tutte donne."
Quello fu il periodo più difficile della cooperativa. Mario si incupisce ma prosegue, non capisco bene ma sembra che gli brillino gli occhi. Occhi buoni che si rattristano al parlare dei tanti momenti difficili della guerra e dei mali del mondo di oggi. Occhi di speranza, pronti a illuminarsi e a contagiare tutti coloro che vicino a lui lo ascoltano. Ogni episodio che dalla bocca di Mario racchiude un racconto di resistenza. Mario e sua moglie, alla guida della cooperativa, sono stati minacciati più volte e sono dovuti scappare, nascondersi. Fa male sentire certe sue parole...
Ogni posto che visitiamo racchiude una storia e aSantiago Atitlan incontriamo Micaela, sua moglie, arrivata fino a li per noi per raccontarci di quando nel 1981 fu assassinato Stanley Rother, un missionario dell’Oklaoma. Assassinio che assunse rilievo internazionale e fece scaldare gli animi fino a quando nel 1990 una marcia di protesta spontanea verso la base dell'esercito, posta ai margini della città, venne colpita con armi dal fuoco, causando la morte di 13 civili disarmati. Lei, Micaela, era li, in prima persona, a testimoniare i fatti e anche grazie a lei la pressione internazionale costrinse il governo guatemalteco a chiudere la base e a dichiarare Santiago Atitlan "zona libera-militare".
Oggi la cooperativa sta tornando a crescere e conta quasi 5000 soci. Il capitale disponibile non è molto ma sono stati fatti recentemente degli investimenti importanti, primo tra tutti quello della scuola di Monte Cristo.
La gente che ha ricevuto prestiti ha avviato le sue piccole attività ma c’è una cosa curiosa. Le famiglie non hanno utilizzato il denaro per fare il pavimento nuovo nella propria casa. Hanno deciso di spendere quei soldi per mandare i propri figli a scuola. Perché è sull’educazione che la cooperativa ha deciso di puntare. E nessuna scelta poteva essere migliore.
Alla fine del viaggio arriviamo alla scuola di Monte Cristo. E’ una scuola speciale. Una volta arrivati ci presentano al personale di servizio, segretarie e professori. Alcuni di loro rispondono “per servirla” tenendo lo sguardo basso. Ci sono 3 aule per la lezione ordinaria (primo, secondo e terzo livello), un salone grande per le presentazioni (con annesse le bandiere di Italia, Europa, Pace e Guatemala), un'infermeria (con un’infermiera sempre presente e una dottoressa ogni lunedì), laboratori vari per imparare i lavori di falegname, meccanico, tessitore. C’è la mensa, campo da calcio/basket/volley, un orto, un vivaio e una piccola fattoria; c’è anche una casa per ospitare chi, come Elisabetta e il suo compagno, sono qui come volontari per lavorare con I bambini.
L’invito a pranzo è scontato e entriamo in mensa insieme a tutti gli alunni. Il pasto commune è un momento estremamente importante, quasi sacro. “buon appetito” viene detto sia all'inizio e alla fine, mentre ci si alza da tavola.
Mi fa ben pensare che con tutto quello che è successo negli anni qui in Guatemala, gli unici che non hanno problemi a mangiare sono i soci della cooperativa e le loro comunità che in passato hanno saputo creare degli orti per potersi rendere autonomi dal mercato. Sembra una cosa da poco, ma un tempo qua le coltivazioni erano le grandi fincas dei latifondisti.
Vent’anni fa le ragazzine a 14 anni andavano in giro con il bambino in spalla. Oggi a 18 anni vanno a scuola con lo zaino in spalla, questo credo sia tra i più grandi successi della cooperativa di Mario. C'è bisogno di ricreare la classe dirigente delle comunità, e senza educazione non si va da nessuna parte.
L’educazione dei ragazzi, il coinvolgimento dei padri nella formazione, il microcredito o la redistribuzione della terra delle grandi piantagioni… tutto questo è parte integrando della lotta per emanciparsi.
“Mario”, gli dico, “dovresti scrivere un libro…” mi guarda, sorride, torna a fissare la strada e riprende a raccontare. E non ha mai smesso, lui, di parlare.
Sono tanti i progetti che Mario ha in mente ma i soldi non sono molti. Ricorda molto le ONG italiane che lo hanno aiutato e mi spiega come il loro aiuto sia sempre stato importante, ricorda con affetto il viaggio in Italia dove ha potuto conoscere direttamente chi da qui lo stava aiutando. Sapere che la cooperativa ha tanti amici in Europa e nel Mondo è una cosa che frena molto chi, in Guatemala, non la vede di buon occhio.
Difensori dei diritti umani più volte minacciati di morte, come ultima storia ascoltiamo Micaela raccontare di quel giorno, quando hanno trovato i muri del centro educativo Monte Cristo imbrattati di sangue, con impronte di mani e inequivocabili minacce di morte.
Ma loro continuano il loro progetto e fino a quando ci saranno persone come Mario Cardenas e sua moglie, ci sarà speranza per il Guatemala.